
minas de potosi'
Si muore ancora nel ventre della terra. Da cronache di Potosí vecchie cinquecento anni: schizzano memorie prefotografiche, parole strabiliate, e nella letteratura, c’è Sancho Panza, nel Don Quichotte, a nominarla: «vale un Potosí», indica una moneta. Riavvolgere il nastro: e trovarci artigiani preziosi, bordelli di seta, il pianoforte al caffè. E argento, un fiume, un mare, un oceano d’argento da spolpare dal Cerro Rico, sbalzo ripido d’orizzonte, 4.782 metri in cima, che era, è, un inferno al contrario – e che dell’oltre mondo ricalca esatto la memoria letteraria. Si muore ancora nel ventre della terra. Nelle cinquecento gallerie d’estrazione, in tombe scavate col piccone e l’esplosivo. Una mattanza di almeno otto milioni di indigeni o schiavi africani, quando i forzieri della corona di Spagna si riempivano fino a scoppiare. Dalla scoperta nel 1545 all’indipendenza boliviana del 1825 l’argento di Potosí è stato un disastro come diadema. Ha arricchito chi ha continuato a snervarla fino alla scorza, lasciandola carcassa, misera, fredda. A ricordarlo resta più impeccabile castellano parlato in Sud America , la fede incrollabile dei potosini, le chiese cesellate ad ogni angolo di strada. Una distesa di tetti, gente che vive con niente: sottozero, mattoni rossi senza intonaco. Sud dalla Bolivia, ma tanto stretti al cielo che l’azzurro dà fastidio. Riporterò dalla città più alta del mondo, che alla fine del XVIII secolo era la più ricca di Latinoamérica, e più grande di una qualsiasi Londra o Shanghai. Premetto Eduardo Galeano: da “Le vene aperte dell’America Latina”. Parole di un’anziana cholita avvolta in un «chilometrico scialle di lana di alpaca»: «La città che più ha dato al mondo e che meno possiede», è la sentenza. Era più di quarant’anni fa. Oggi lo stesso, solo un qualche turista in più, per qualche ostello. Rientrare in quelle gallerie dopo cinque secoli di drenaggio furioso, è accovacciarsi, affondare nel fango, caldo d’inverno. Almeno 15.000 mineros rosicchiano giornalmente questi intestini bollenti: ma d’argento ormai si parla solo nelle leggende o in formule scaramantiche. L’adesso è altro.
Si piccona, s’accende dinamite, si asfissia, ancora si muore ma non si dice forte, per briciole di quello che resta. E resta poco: stagno, zinco, rame. È vero: quaggiù non scende neanche Cristo, e se versa un poco della miscela che tracanna, Walter, 28 anni, sottoterra da dieci, lo fa per la Pachamama. « È la madre terra che dobbiamo ingraziarci qui sotto, lei ci protegge. A ogni mio sorso, un sorso a lei». Il casco il sudore gli hanno incollato i capelli carbone sulla fronte, una piccola bottiglia di plastica, una spruzzata nel pavimento melmoso, «Upiriquy», «Upiriq’usaj» si risponde, poi l’hombre minero ingola un sorso, fa una leggera smorfia, passa il miscuglio ad Alvaro, 25 anni, accovacciato di fianco. Si lavora sempre in gruppo, e spesso si tratta di formazioni familiari: padre, figli, zii e cugini. Cinque persone estraggono una media di una decina di carrette a giornata, una tonnellata di materiale grezzo. Poi lo rivoltano, lo accumulano, giù dalla scarpata dove si spezzano gli scalcagnati binari che guidano vagoni colmi di materiale da raffinare. È il lavoro del sabato. Tutti i minatori di Potosí sono organizzati in cooperative, 48 in tutto il Cerro, a cui versano una quota dei propri magri ricavi settimanali. Così sono i pagamenti, ogni sette giorni, e sebbene sia azzardato chiedere di un dato sul guadagno medio, per questo massacro di fatica sono in pochi quelli che raggranellano più di cento dollari a semana. Tanto dipende dall’anzianità, dalla mansione, dalla fortuna, anche questa conta, perché più materiale “nobile” è raffinato, più il gruppo di minatori è remunerato. Ma resta altro sulla lista dei meno: l’1,5% dei ricavi di ogni formazione è versato allo Stato, che dal 1952 controlla direttamente le miniere di Potosí. Trasporto, raffinazione, aria compressa per l’estrazione sono tutte spese che il gruppo di minatori sostiene di tasca propria. Stessa cosa per l’attrezzatura: elmo, giubba, lampada, dinamite e alcol. Tutti i lavoratori sotterranei si riforniscono tra il cascame delle botteghe del mercato minero: il Calvario. Il nome è lo stesso di una chiesa poco distate dove un tempo i missionari costringevano gli indios a convertirsi.
Poi ci sono le foglie di coca. Dal mattino alla sera. A gonfiare, deformare le guance di minatori e non. Le masticano una a una, le lasciano riposare in una bolla spessa contro le gengive. L’hoja verde, la foglia, è uno dei simboli della Bolivia tradizionale, del Paese che si stringe attorno alla Wiphala, la bandiera andina, e al primo presidente indigeno del Sud America: Evo Morales. Lui, che ha fatto della conservazione delle piantagioni di coca un cavallo di battaglia della propria prima, vincente, campagna elettorale.Tutti masticano in miniera: per tirare avanti dodici ore senza mangiare dentro gallerie da togliere il respiro, un cappio alla gola, incrostate di veleni bestiali per il fisico. Gialle d’arsenico. In un Paese dove la speranza di vita maschile è di 65 anni, per i minatori questa media può abbassarsi a 45 anni, anche meno. Tanti, quasi tutti, dopo anni di lavoro soffrono di disturbi respiratori, i più sono colpiti dalla silicosi. Così, succede che quando il fisco è talmente devastato da non permettere più al minatore di scendere sottoterra, questo riceve finalmente una piccola pensione. Ma c’è di più, e del sorprendente in quello che racconta Eliso Johnny Salas Condori, 28 anni, da cercatore d’argento a cicerone delle gallerie. Nipote e figlio di minatori ricorda la prima settimana di suo padre a riposo dopo 40 anni di lavoro. «Ha resistito sette giorni, poi è voluto ritornare alla mina. Non importa il buio, la fatica, l’aria densa irrespirabile: quella è la sua vita». Non è l’unico: sono in tanti quelli che in condizione di ricevere una pensione scelgono di restare a lavorare sottoterra. Dopo tanti anni nel gruppo il legame è infrangibile, è una seconda famiglia.Ma per chi è gringo basta qualche ora, l’aria è irrespirabile. Il tempo di una ultima sosta: all’altare del tio, lo zio, l’altro dio di questi budelli. È un feticcio cornuto, seduto, ricoperto di coriandoli e foglie di coca. Il pene virilmente eretto. Quaggiù non scende neanche Cristo, ma non c’è minatore che manchi il suo omaggio giornaliero al diavolo seduto, sguardo fisso nel voto, che sfumacchia una sigaretta che gli hanno ficcato in bocca. Testo di Edoardo Malvenuti


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